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Tomba dei Campi Elisi

La Tomba dei Campi Elisi, monografia pp. 4 di Antonello Anappo (Fondo Riva Portuense, Roma 2008 )

 

La Tomba dei Campi Elisi è un sepolcro del II sec. d.C., le cui pareti affrescate raffigurano le beatitudini dei giusti nel paradiso pagano.

La tomba viene realizzata da due genitori colpiti dalla prematura perdita dei due figli. I giovani compaiono raffigurati con fedele realismo in medaglioni all’interno di tabernacoli, e vengono evocati più volte nelle scene pittoriche: il passaggio del fiume Lete e le quattro scene dei giochi beati (il plaustrum, gli astragali, la moscacieca, il trigon); i genitori compaiono nella scena di mestizia e nel banchetto dei giusti. Completano gli affreschi la coppia di pavoni, la coppia di caproni, le quattro stagioni. La tomba è scavata nel tufo e presenta 26 nicchie, sei fosse e due sarcofagi. È stata scoperta nel 1951. È stata intagliata e trasportata al Museo Nazionale Romano.

 
Alla ricerca del tempo migliore
 

La Tomba dei Campi Elisi nasce da un incolmabile dolore: quello di due genitori della prima metà del II sec. d.C. che sopravvivono alla morte improvvisa dei due figli, nell’età della preadolescenza.

I Romani danno un nome preciso a questo triste evento: «mors iniqua», ovvero morte ingiusta. Si tratta di uno dei lutti più difficili da elaborare per un genitore dell’Antica Roma. Se la mortalità alla nascita o nella prima infanzia è un fenomeno così frequente nel mondo antico da essere persino accettato come un fatto naturale, vedere invece morire un bambino nella fascia d’età a ridosso della pubertà - ma senza esservi ancora entrato - è considerato una grande iattura, un mancato premio a conclusione di un cammino costellato di sforzi.

I genitori, committenti di questa tomba sulla Via Portuensis, superano questa dolorosa perdita commissionando a ignoti pittori una complessa sequenza di dieci scene affrescate: le ultime tre si rifanno all’iconografia funeraria tradizionale (i pavoni, i caproni, le quattro stagioni), mentre le prime sette, ritenute di grandissima importanza dagli studiosi, hanno insieme contenuto biografico e didattico: esse spiegano infatti, con la semplicità delle immagini, come è fatto e come funziona il paradiso pagano. Esse descrivono, con grande realismo, la vita spensierata dei due bambini (fatta di giochi, della costruzione delle prime relazioni sociali, di esplorazione del mondo), e dei genitori (dal consolidato posizionamento sociale); e tramandano così ai posteri il messaggio consolatorio che ai giusti, nel paradiso pagano, è consentito continuare a vivere nel proprio tempo migliore.

La particolarità della tomba è infatti la presenza fin dall’origine di due finestrelle, ai lati della porta d’ingresso, attraverso le quali ciascuno dei molti passanti della Via Portuensis avrebbe potuto ripercorrere la storia dei due giovani e insieme contemplare per immagini la bellezza del paradiso. Scrive il sovrintendente Aurigemma, che negli Anni Cinquanta studiò la tomba: «Nei Campi elisi regna eterna primavera. Ogni dolore è ignoto. Ignota è la vecchiaia. La vita beata attende i giusti dopo la morte. Chi vi perveniva conservava l’età in cui aveva goduto la maggiore felicità». I Romani ritenevano insomma che le anime dei giusti godessero nell’aldilà di uno stato di grazia e di eterna giovinezza.

 
 

La prima scena, chiamata I ritratti di famiglia, è una sorta di fermo immagine sulla composizione del nucleo familiare al momento della morte dei due giovani. Si compone di tre parti: due medaglioni circolari e la scena di mestizia.

I due medaglioni circolari sono dei ritratti, di accuratissimo realismo fisiognomico, dei due giovani defunti: un maschio e di una femmina. I medaglioni sono posti nei timpani di due tabernacoli nella parete di fondo, ospitanti ciascuno le ceneri dei due giovani.

La scena di mestizia, di piccole dimensioni, si trova sotto un terzo tabernacolo (in posizione centrale tra i due tabernacoli dei figli, riservato alle ceneri dei genitori quando sarà il loro momento). La scena raffigura i due coniugi, seduti e raccolti in una sommessa conversazione, facendosi forza l’uno con l’altra. Lui indossa una tunica scura; la consorte è in tunica chiara. Essi sono raffigurati da soli, senza altri figli o prossimi congiunti a sostenerli nel dolore. La scenetta di solitudine rivela il dramma familiare di non avere altri figli che possano continuare la discendenza: i coniugi sanno che, perduti gli unici due figli, il nome della famiglia si estinguerà.

La ricchezza della tomba autorizza a pensare ad una famiglia decisamente benestante, proveniente forse dal prossimo abitato del Trans Tiberim, dotata anche di un folto stuolo di servitori. Alcuni graffiti nello stucco della parete di sinistra ne tramandano i nomi: gli schiavi Timius frater Horinae (Timio fratello di Orinna), Pardula anima bona (Pardula dal buon carattere), e un’ancella di nome Asclepia. La ricchezza della famiglia è attestata anche dal gran numero di servitori affrancati, cui è stata cioè donata la libertà: i liberti Alexander, Philetus, Aphrodisia, Eutychia, Felicissima e Protus Zosimus. Il piccolo cippo marmoreo di quest’ultimo, ritrovato nella tomba, cita il nome del suo patrono, Publius Aelius, che con buona probabilità è anche il pater familias costruttore della tomba e il padre dei due giovani defunti.

Complessivamente schiavi e liberti devono essere tra i 15 e i 23, perché nella parete di sinistra è presente un colombario con 15 nicchie (disposte su tre file da cinque, in gran parte inutilizzate), e altre 8 nicchie sono sparse nella parete frontale. La tomba è nel complesso piccola (misura soltanto 9 metri quadri) e, al momento della scoperta gli archeologi vi hanno individuato anche sei fosse per l’inumazione e due sarcofagi, aggiunti successivamente.

 

La navicella sul fiume Lete

 

La seconda immagine, chiamata Navicella sul fiume Lete, è collocata nel soffitto sopra la porta d’ingresso, racchiusa da una cornice.

Prosegue idealmente la narrazione, raccontando il viaggio dei due giovani defunti verso la dimensione beata dei Campi Elisi. La scena propone un florido paesaggio fluviale, con una parete rocciosa come scenario, con un pino marittimo a fare da quinta prospettica. Il fiume è il Lete, il fiume dei Campi Elisi, speculare all’Acheronte dell’Ade. Su di esso naviga una graziosa barchetta a vele gonfie, nell’atto di accostarsi delicatamente alla riva, con un uomo intento alle manovre. È il nocchiero dei Campi Elisi, figura speculare a Caronte. Sulla riva, ad attenderlo, ci sono le due figurette di due giovani: una è impiedi, quasi a salutare il nocchiero; l’altra è seduta sulla sponda in serena attesa. Il sovrintendente Aurigemma vede in questa rappresentazione, come spesso accade nei contesti funerari, anche la citazione colta di un famoso episodio omerico: Ulisse nel Paese delle Sirene.

La narrazione prosegue a questo punto su una terza parete, la parete di destra, dove sono collocate in sequenza quattro immagini, le quali insieme prendono il nome di Scene dei giochi beati. Ai due giovani, che in vita si sono condotti secondo pietas e iustitia - la pietas è il rispetto delle leggi divine; la iustitia è il rispetto delle leggi degli uomini -, una volta giunti nei Campi Elisi, è concessa la ricompensa di rivivere il loro tempo migliore. Le preziosissime scene, che sono insieme un flashback della vita passata e una proiezione di cosa li aspetta nei Campi Elisi, misurano complessivamente circa 2 metri e sono inventariate con il numero AFS331131. Si tratta di un rettangolo orizzontale, in campo bianco, sormontato da un festone a tema vegetale. All’interno sono dipinte in sequenza quattro immagini, ognuna delle quali raffigura un gioco infantile. Esse sono, nell’ordine: il plaustrum, gli astragali, la moscacieca, il trigon.

 
 

La terza immagine, chiamata Il gioco del plaustrum,  raffigura un giovane svestito, con le sole pudenda coperte da un panno. La scena sarebbe di per sé poco significativa, se non fosse per il curioso oggetto di alta tecnologia che il ragazzo conduce in corsa: un plaustrum, cioè un carro in miniatura, sorprendentemente simile ad un moderno monopattino. Pare che si tratti dell’unica testimonianza visiva di un monopattino pervenutaci dall’antichità.

Il plaustrum è descritto in vari testi dell’antichità: a quattro, una o tre ruote. I più comuni sono quelli a quattro ruote, vere e proprie miniature dei carri più grandi, trainati da animali di piccola taglia, legati con un laccio di cuoio: in genere cani o caprette, ma non mancano testimonianze fantasiose di carretti volanti trainati da oche, colombi e fenicotteri, o racconti di carri trainati da servi o, a turno, da altri compagni di giochi. Con un plaustrum i monelli fanno scorribande ad alta velocità, e non sempre la corsa finisce in maniera tranquilla: spesso le bestiole si divincolavano dal laccio, o qualche amico buontempone lascia andare il compagno di giochi proprio in prossimità di una discesa.

C’è poi un altro tipo di carro a ruota unica, che consiste in un asse di legno o un semplice bastone (che funge da timone), con all’estremità una forcella nella quale è montata una sola ruota. I bambini costruiscono i carri monoruota in casa. Stare in equilibrio sul bastone monoruota non deve essere un’impresa facile, ma pare che questo gioco abbia goduto di una certa popolarità.

Infine la terza tipologia è una variante della seconda, in cui al timone viene aggiunto anche un telaio orizzontale di base, sorretto da altre due rotelle posteriori. Su questo spleciale plaustrum a tre ruote la trazione non è data da un animale, ma dal suo stesso conducente, che con una gamba si tiene in equilibrio sul telaio, e con l’altra sospinge la sua corsa. Si tratta di un oggetto straordinariamente moderno, che potremmo tranquillamente trovare in vendita in un mercatino artigianale di oggi.

 
 

La quarta immagine, chiamata Il gioco degli astragali, raffigura un gruppetto di quattro ragazzini seduti per terra, con lo sguardo rivolto verso un quinto, all’impiedi, nell’atto di lanciare in aria dei piccolissimi oggetti. Essi sono stati riconosciuti dagli studiosi come astragali, sorta di succedaneo povero (e diffusissimo) dei moderni dadi.

L’astragalo è un ossicino del tarso posteriore dei caprini, situato tra calcagno e bicipite, dalla forma cubica. A differenza dei dadi ognuno di questi ossicini cubici ha sole quattro facce utili, in quanto le altre due sono di forma arrotondata e non stanno in equilibrio. Le quattro facce utili sono a loro volta diverse fra di loro: la faccia del cane è perfettamente piatta e corrisponde all’1 dei dadi moderni; la faccia del cavo è concava e corrisponde al 3; la faccia del dorso è convessa e vale 4; infine l’ultima, la faccia di Venere, è anch’essa perfettamente piatta: è la più desiderata e vale ben 6 punti. La somma delle facce opposte dà sempre 7; mancano il 2 e il 5.

Se con gli astragali gli adulti praticano il gioco d’azzardo, vincendo o perdendo delle fortune, ai più giovani è consentito un innocente gioco di iniziazione, chiamato gioco delle tre prove. Il gioco è una sequenza di tre esercizi di destrezza, di livello via via crescente: vince il primo che le porta a termine tutte e tre senza errori. La prima prova consiste in esercizi di lancio. Si tratta di tirare in aria con la mano sinistra cinque astragali, facendone cadere almeno uno sul dorso della mano destra. È possibile recuperare da terra gli ossicini caduti, effettuando lanci di recupero, durante i quali sono richiese posizioni acrobatiche complesse, tutte minuziosamente descritte da testi dell’antichità. Nella seconda prova gli astragali sono poggiati su un piano (generalmente per terra), e l’abilità consiste nel manipolarne quattro, componendo diverse sequenze (ad esempio la prima è dorso-cavo-cane-Venere), nel breve tempo del lancio in aria del quinto astragalo. Si arriva così alla terza e più difficile prova: effettuare dei veri e propri esercizi ginnici - chiamati raffica, cerchio e pozzo - anch’essi nel breve tempo di un volteggio in aria di un quinto astragalo.

Secondo un’altra interpretazione, però, gli oggetti scuri nell’affresco non sono astragali, ma le popolarissime noci, utilizzate dai giovani della Roma imperiale per un’infinità di giochi: prove di destrezza come negli astragali, percorsi simili alle moderne biglie, oppure una sorta di antenato del gioco del bowling, tirando una noce contro una barriera (cappa) di altre noci. Conosciamo i giochi con le noci attraverso il poeta Ovidio, che dedica un’intera opera all’età dei giochi, chiamandola emblematicamente Nuces (Le Noci). Il gioco preferito del giovane poeta è il Ludus castellarum (il gioco delle torri). Si tratta di comporre delle torri disponendo a triangolo tre noci con sopra poggiata una quarta, fino a comporre un’intera cintura di torri, che simulano un castello da assediare: l’avversario, lanciando ripetutamente un’altra noce come fosse un ariete, deve espugnare il castello, abbattendone una ad una tutte le torri. L’utilizzo delle noci è insomma così popolare e multiforme che esiste addirittura una frase comune, «relinquere nuces» (smettere di giocare alle noci), per indicare il passaggio dall’età dei giochi all’adolescenza.

 
 

La quinta immagine, chiamata Il gioco della moscacieca, mostra tre giovani in tunica corta. Uno di essi ha gli occhi coperti da una mano, mentre l’altra è protesa verso gli altri due giocatori, che cerca di afferrare.

Il nome latino del gioco è musca eburnea, che letteralmente significa mosca di bronzo e fa riferimento alla sgradevolissima mosca cavallina, dall’addome iridescente e capace di riflettere i colori, proprio come le superfici a specchio del bronzo. Il gioco simula la caccia a questo animale: un giocatore è il cacciatore mentre gli altri sono mosche cavalline da acchiappare.

A differenza della versione moderna del gioco, che si pratica a viso bendato, al cacciatore dell’antichità è semplicemente richiesto di mettersi una mano davanti agli occhi, confidando nella sua onestà. Il regolamento ci è tramandato da uno scritto di Pollione. Il cacciatore si copre il viso e i compagni lo fanno girare più volte su se stesso, fino a fargli perdere l’orientamento. Mentre ruota recita una filastrocca, che in italiano suona così: «Acchiappo la mosca di bronzo». I compagni gli rispondono «La cerchi, la trovi, ma non l’acchiappi», in modo che il cacciatore, attraverso il senso dell’udito, possa individuarne la posizione, lanciandosi subito dopo in un goffo inseguimento tra sberleffi grossolani. Racconta Pollione che è consentito sferrare qualche colpetto, dolorosi calci sul sedere o, persino scudisciate con frustini di cuoio. Finché, fatalmente, qualche ardimentoso si avvicina troppo al cacciatore, e la mosca viene presa.

Come per il gioco precedente esistono altre letture. Potrebbe trattarsi di un gioco simile, chiamato «muida», antenato della moderna acchiapparella.

Oppure, se leggiamo nei movimenti delle braccia il gesto scenico di un oratore, potrebbe anche trattarsi di un gioco molto diverso - raffinato e forse persino noioso per i tempi d’oggi -, chiamato «iudices» (gioco dei giudici). Elio Sparziano riferisce che questo gioco poco rumoroso è l’unico consentito durante le cerimonie ufficiali, le processioni e i contesti altolocati. Si tratta di un gioco di imitazione degli adulti, in cui i piccoli a turno interpretano i ruoli di giudice, imputato, avvocati e testimoni in un immaginario processo, raccontando con compostezza delle storie inventate e incredibili, rendendole verosimili: il giudice ha il delicato ruolo di smascherare l’impostore o premiare le capacità di affabulazione.

 
 

La sesta immagine, chiamata Il gioco della palla, raffigura tre ragazzini in tuniche variopinte posizionati ai vertici di un triangolo, con il braccio destro alzato a colpire una palla fluttuante nell’aria. In questa scena è stato riconosciuto il gioco sportivo del trigon, che è una specialità a tre giocatori, simile alla moderna pallavolo, del comune gioco dello sphaeristerium (il gioco della palla).

La palla usata per i giochi aerei è la pila trigonalis; è una palla dura, realizzata con un sacco di pelle conciata, imbottito di sabbia o sassolini. Caratteristica del gioco è l’obiettivo comune e collaborativo di mantenere la sfera sospesa in aria il più a lungo possibile, finché, compiuta una determinata sequenza di palleggi, uno dei giocatori può porvi termine con un lancio in schiacciata. Il trigon è ancora oggi praticato nelle scuole italiane, con il nome dello schiacciasette.

Il trigon era un gioco leggero, praticato dai ragazzi più giovani o dalle ragazze. Ai maschi, in genere più grandi di età, era invece assai gradito un altro gioco con la palla, ben più invasivo: il pulverulentus. Il polverulentus (letteralmente: gioco che genera nuvole di polvere) si gioca in grandi spazi sterrati con una palla dura, l’harpastum (simile alla pila trigonalis ma più piccola), con un regolamento ibrido tra il calcio e il rugby, in cui bisogna contendersi il possesso di una palla e scagliarla infine nel settore avversario. Agli infanti è riservata una palla più grande e leggera, la paganica, riempita delle piume di animali da cortile. Esiste infine un quarto tipo di palla, gonfiata di aria, il follis, con cui giocano adulti e persino anziani, soprattutto all’interno delle terme. Con il follis si pratica il ludere expulsim (oggi: palla respinta o palla prigioniera). Ma il follis è un lusso davvero per pochi: nella Tomba dei Campi Elisi per rappresentare la felicità del paradiso basta una pila trigonalis.

Con il trigon si chiude la sequenza dei giochi beati. Va detto che nella Roma imperiale vi sono almeno altri tre giochi, popolarissimi, che, sebbene non compaiano nella tomba portuense, meritano comunque di essere citati: i galli, la morra, i bellatores. Plutarco racconta delle guerre tra galli. Ogni monello ha il suo galletto da combattimento, sul quale scommette in combattimenti dal grande pathos. Essi possono concludersi con la morte del galletto, e il padroncino piange sonoramente quando il suo galletto ha la peggio. Molto diffuso è anche il gioco della morra, che consiste nell’aprire repentinamente la mano mostrando un certo numero di dita (da 0 a 5), cercando di indovinare la sommatoria dei tiri di tutti i giocatori. Nelle famiglie più ricche sono infine presenti delle scacchiere, di varie forme e dimensioni, alle quali si gioca con modalità di complessità crescente: come nel moderno gioco del filetto; in maniera simile alla dama (gioco delle dodici linee) o agli scacchi (Latrunculi o Bellatores). Per i Romani, insomma, giocare era l’anticipazione in terra della beatitudine del paradiso.

 
 

La settima scena, chiamata Il banchetto dei giusti, torna ad evocare l’immagine dei genitori. Ad essi - proprio come i figli - spetta di godere nei Campi Elisi del proprio tempo migliore. Il paradiso pagano è una dimensione senza tempo, in cui ognuno vive nell’età che gli ha dato la maggior felicità, dilettandosi con le attività più gradite. E se per i figli il tempo migliore è quello dei giochi innocenti, per Publio Elio e la sua amata il tempo migliore è l’età dei vent’anni, subito dopo il matrimonio: li ritroviamo ritratti in un momento di banchetto, nell’atto di distribuire agli altri commensali le poste iniziali per il gioco d’azzardo.

La scena (posta al di sotto del lucernario di destra) raffigura i due coniugi sdraiati su un elegante triclinio con spalliera. La moglie ha accanto a sé la serva prediletta, e le impartisce con autorevolezza alcuni ordini, puntando l’indice verso un tavolino a tre piedi sul quale sono poggiati tre piattelli vuoti.

La consuetudine vuole che siano i padroni di casa ad offrire le poste iniziali dei giochi conviviali, deponendole su piattelli. Chi durante i giochi esaurirà le poste potrà scegliere se ritirarsi dal gioco, oppure proseguire mettendo sul tavolo denari propri.

Il gioco d’azzardo con gli astragali si pratica con una logica abbastanza simile al monderno gioco del poker. Ogni giocatore lancia quattro astragali e ad ogni faccia corrisponde un punteggio da 1 a 6. I punteggi di norma si sommano, attribuendo la vittoria a chi ottiene il punteggio maggiore, ma la massima ambizione del giocatore di astragali non è fare sommatoria, bensì di realizzare una delle 35 combinazioni speciali - un po’ come la doppia coppia, il full, il poker, la scala reale di oggi -, ordinate secondo una speciale gerarchia, che il giocatore provetto conosce a memoria. Conosciamo queste combinazioni attraverso il più celebre giocatore dell’antichità, l’Imperatore Ottaviano Augusto, che scriveva al figlio adottivo Tiberio lunghi resoconti delle sue prodezze al gioco, con lettere ora giubilanti, ora mestissime.

Ad esempio, la combinazione più sventurata è l’1-1-1-1, ovvero quando tutti e quattro gli astragali mostrano la faccia del cane. Questa combinazione è chiamata «Anubis» o colpo del cane e chi la fa deve corrispondere agli altri giocatori una vertiginosa penale. Un altro lancio ben sventurato è il «Sex» o colpo del sei, composto dalla combinazione di tre cani e un cavo (1-1-1-3). Testimonia Augusto in una lettera: «Caro Tiberio […], gettati gli astragali, chi faceva cane o sei doveva mettere per posta sul tavolo tanti denarii quanti erano i punti degli astragali degli altri giocatori. Vinceva tutte le poste chi faceva Venere».

Il «Venus» o colpo di Venere è la combinazione più felice, caratterizzata da quattro facce tutte diverse l’una dall’altra. Chi fa Venus allarga le braccia e arraffa tutte le poste sul tavolo. Del Venus, sogno proibito di ogni giocatore, parla un celebre epigramma di Marziale, il quale avendo donato ad un amico quattro astragali d’avorio, così gli scrive: «Aspetta a ringraziarmi: fallo soltanto quando nessuno degli astragali ti presenterà un volto uguale».

Va detto infine che nel gioco, durante il banchetto conviviale, è richiesto un certo stile, caratterizzato dalla magnanimità. Ad esempio, alla fine del banchetto, è buona norma che coloro i quali hanno vinto restituiscano al padrone di casa le poste iniziali. E se, durante il gioco, un giocatore ha una fortuna così sfacciata da lasciare tutti gli altri senza altri denari per proseguire, ha quasi l’obbligo di donare agli altri nuove poste per proseguire il gioco, ricevendone in cambio una grande ammirazione. Augusto ci lascia una preziosa testimonianza della concezione romana del fair play: «Caro Tiberio, alla fine ho perso 20.000 sesterzi. Ma sia chiaro: solo perché come al solito sono stato generoso. Se solo avessi richiesto indietro ai commensali le poste iniziali, quelle che ho condonato loro quando ho vinto, e quelle che ho aggiunto via via per alimentare il gioco, alla fine di sesterzi ne avrei avuti in mano 50.000. Preferisco così! La mia generosità mi farà finire direttamente in paradiso!».

 
 

Con il Banchetto dei giusti terminano le immagini biografiche, ma la decorazione pittorica è tutt’altro che conclusa. Seguono altre tre grandi immagini, anch’esse di elevatissima qualità pittorica, che attingono all’iconografia funeraria tradizionale, e, pur non aggiungendo elementi nuovi alla nostra conoscenza dei Campi Elisi, meritano comunque di essere descritte.

Nella parete di sinistra, al di sopra del colombario, è presente un’ottava scena, chiamata Coppia di pavoni affrontati che bevono alla fonte della vita. Si tratta di una composizione offertoriale con al centro una grande coppa colma di vino (che raffigura simbolicamente la fonte della vita), alla quale si abbeverano due pavoni dalle lunghissime e variopinte code (simbolo dell’immortalità dell’anima).

Nella parete di destra, come spesso avviene nei sepolcri familiari, si trova un’immagine esattamente speculare, la nona, chiamata Lotta tra due caproni. Essa raffigura due montoni selvatici dal pelame mai tosato e con un superbo palco di corna. Accanto ad essi sono raffigurati un cratere (un vaso basso e aperto) ed uno scudo.

Il soffitto è l’unica parte danneggiata della tomba, ma nelle parti di intonaco non cadute è possibile distinguere motivi geometrici e larghe fasce purpuree. Sono perfettamente conservati i quattro spigoli, nei quali trovano posto quattro medaglioni circolari con figure femminili a mezzo busto, i quali raffigurano insieme la decima e ultima immagine del sepolcro, chiamata I geni delle quattro stagioni. Su di essi la studiosa Felletti-Maj ha scritto: «L’avvicendarsi delle stagioni, l’addormentarsi e rinascere delle forze della natura, è espresso simbolicamente nell’arte per mezzo di questi genii, che vengono così ad assumere un significato di resurrezione».

Completano la decorazione pittorica numerose immaginette di offerte votive situate soprattutto nella parete frontale (due brocche da acqua, una coppa, un calice da vino, piccoli volatili e fiori) e un cesta colma di frutta nella parete d’ingresso: i melograni, le pere, i rametti verdi, così come gli intarsi in vimini della cesta, sono raffigurati con impressionante realismo.

La tomba è stata scoperta nel 1951, insieme all’altra tomba chiamata Tomba degli stucchi. L’Istituto Centrale per il Restauro ha curato il taglio dal costone tufaceo che la conteneva e il trasporto al Museo Nazionale Romano, dove è oggi visitabile. La tomba è stata restaurata nel 2008.

 

La Tomba dei Campi Elisi, monografia pp. 4 di Antonello Anappo, in Biblioteca (Sala 2) inv. 347 /B

Vedi anche:
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Tomba dei dipinti al Museo Nazionale Romano (foto di Antonello Anappo, altre 62 immagini nel Fondo fotografico)

scheda inventariale

Inventario

 

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